NOTIZIE STORICHE SU FEROLETO ANTICO

(Notizie tratte dal libro di Franco Falvo  : “Feroleto Antico, il passato, il presente” edito nel 1990 da Silipo e Lucia editori- Catanzaro)

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Sulla storia dello sviluppo di Feroleto ricorrono avvenimenti e circostanze  che si rinvengono anche in quello di molti altri centri della regione: terremoti, cattive amministrazioni, emigrazione, sono stati elementi che lo hanno toccato e caratterizzato. Un analisi soltanto rapida del paesaggio ce ne fa scoprire i segni. Ruderi, mancato sviluppo urbano, trasformazione violenta dei luoghi, degrado ed abbandono sono gli aspetti più evidenti che si riscontrano, determinati da malanni naturali e sociali, ai quali il paese non si è potuto sottrarre.

Pare che intorno al secolo IX  (ma molti studiosi ritengono anche prima) popolazioni di origine ausonia o enotria, allontanandosi dalle coste si rifugiarono in un nuovo sito, per sfuggire alle incursioni dei saraceni e a tal fine scelsero un luogo munito di barriere naturali, che fortificarono con castello e mura. A questa sede diedero il nome di Feroleto (in lingua latina Feroletum). L’etimologia del nome  si presta a due interpretazioni. Secondo una delle due ipotesi il nome di Feroleto deriva dalla parola “ferula”, sostantivo latino che significa “canna”. A tal proposito c’è da specificare  che una volta le sponde dei due torrenti, che delimitavano e delimitano il paese, erano prolifere di canne. Secondo l’altra ipotesi il nome deriverebbe dalla parola “Feroletum” che significherebbe “portatore di morte”.

L’antico suggelo (simbolo) infatti è rappresentato da un uomo poco meno che gigante, con una spada ignuda sulla destra, e nella sinistra un teschio reciso, grondante sangue, con questo verso all’intorno: il Feroleto  son io che il ferro porto , per dare la morte a chi non è fedele. Il Fiore nella sua “Calabria Illustrata “  annota che i fondatori furono costretti  ad abbandonare una primitiva città più vicina al mare, per sfuggire agli attacchi ed alle devastazioni effettuate dai pirati, e per rifugiarsi all’interno del paese. A riprova di ciò, il Fiore segnala testimonianza di ruderi antichi, visibili ai suoi tempi (secolo XVII) nella parte pianeggiante del paese forse quella occupata oggi da Pianopoli.

Avallare o negare questa affermazione è comunque difficile, visto l’affievolirsi e soprattutto il dilatarsi dei dati via via che ci si allontana nel tempo. Non è affatto da escludere che anche per il nostro paese valga quel concetto espresso dallo storico François Lenormant nel libro  “La grande Grèce” , e cioè che le origini della gran parte dei paesi della Calabria  hanno in comune favole e leggende falsificate nei secoli XVI e XVII . Proprio il Lenormant  allora varrà come modello di osservazione, per cercare di separare, in quei pochi documenti disponibili, il mito dalla storia, il passato semifavoloso dal presente.

Riguardo alle origini del nostro paese si possono pertanto fare delle considerazioni. Nell’alto medioevo si ebbero effettivamente quei fenomeni insediativi  che portarono tante comunità  all’interno della regione. Furono soprattutto l’insicurezza  e l’insalubrità delle coste  (vi era diffusa la malaria) che condussero alla ricerca  di un sito naturalmente difeso da entrambi i mali. Il luogo nel quale sorse il paese soddisfaceva tali esigenze; poteva infatti  essere difendibile ed era dominante e, pur non essendo tanto lontano dalle coste, era tuttavia difeso dalla malaria.

“….da soffi di Levante, Ponente, Boreale, viene ventilato, è perciò d’aree molto salubre. Spazio l’occhio degli Abitatori per sei miglia, fra quelle amene Campagne di triplicata verdura, fin all’onde del Mediterraneo”. Soltanto nel medioevo, però, un vago insediamento dovette dar forma ad un centro abitato. Il castello, come rifugio fortificato, con il raggruppamento di case più a vale e il monastero brasiliano, molto vicino al centro edificato, costituirono il primo momento di una organizzazione religiosa, economica e sociale.

Ma sulle antichità del paese si possono fare soltanto delle congetture, perché molto spesso esso ha seguito le vicende della vicina Nicastro, confondendo la propria storia  con la storia di quest’ultima.

Fino al 1611, infatti, esso rimase unito alla contea di Nicastro, ai cui conti, precisamente a cominciare da Ferrante Caracciolo, nel 1589, venne dato il titolo di “Duca di Feroleto”. La contea venne costituita nel 1482 e Feroleto vi fu aggregata  unitamente ad altri centri quali Sambiase, Maida, Zangarona e Lacconia.

Il primo a governarla fu Federino secondogenito di Ferdinando I D’Aragona. Salito altrono Federino, la contea venne affidata nel 1496 a Marcantonio Caracciolo, il quale, a causa delle guerre  tra i francesi e spagnoli che seguirono  alla caduta della dinastia Aragonese, ne conseguì il possesso nel 1495. Nel 1501 la contea passò all’unica figlia di marcantonio, Faustina Caracciolo. Le successe il figlio Ferdinando e a questi la propria figlia Isabella, il cui marito, Marino Caracciolo di Santo Buono, comincia a cedere ai D’Aquino parte della contea.

Fino a questo momento al ducato di Feroleto erano annessi Serrastretta e parecchi villaggi. Nel 1611 tale territorio viene interamente acquistato dai D’aquino, una casata che dal 1260, quando arivò in Calabria e governò Belcastro, al 1799, quando si estinse con la morte di VincenzinaMaria D’Aquino Pico, principessa di feroleto (il principato esisteva dal 1637), riuscì a realizzare un dominio esteso, compreso tra i fiumi Amato e savuto e ai monti mancuso e reventino, tanto che, come qualcuno ha giustamente affermato, nelle vicende di detta famiglia, sono contenute quelle di molti paesi. Eccone i possedimenti al momento dell’estinzione:

a)     terra di Castiglione (col castello di Falerna ab. 1.363). Antico possesso della famiglia concesso ad Adenolfo D’Aquino nel 1303 e confermatogli il 12 marzo 1306. Il titolo di principe di Castiglione fu concesso dal Re Filippo III a Carlo D’Aquino conte di Martorano e 13° barone di Castiglione;

b)    terra di Martorano (col casale di San Mango D’Aquino già Medina, ab. 579) oggi comuni di Martirano Lombardo e San Mango D’Aquino;

c)     terra di Motta Santa Lucia (con i casali di Confluenti superiore, Inferiore e Decollatura, ab. 5.950) corrispondenti agli attuali comuni  di Motta Santa Lucia, confluenti e Decollatura;

d)    terra di Nicastro ( con i casali di Platania, Sant’Angelo, Sambiase, Zangarona, ab. 12.272) corrispondente ai comuni di Nicastro, Platania e Sambiase. Pervenuta a Carlo D’Aquino I° Principe di Castiglione, per vendita fatta da Isabella Caracciolo duchessa di Feroleto, con regio assenso del 1608;

e)     terra di Feroleto (con i casali di Feroleto nuovo e Serrastretta con sei villaggi, ab. 5.912). Oggi comuni di Feroleto, Pianopoli e Serrastretta; superficie complessiva Kmq. 87,56, pervenuta al medesimo  Carlo D’Aquino per vendita fattagli dalla medesima duchessa di Feroleto, con regio assenso 2 dicembre 1611.

Il titolo di principe di Feroleto fu concesso dal re Filippo IV  a Francesco D’Aquino con privilegio  2 aprile 1637.

Lo stato feudale della famiglia D’Aquino Pico fu uno dei più vasti della regione. Tenendo presente il contesto  nel quale i D’Aquino si trovarono ad operare, come la pessima situazione economica e i relativi fenomeni indotti (emigrazione e diminuzione demografica), le incursioni dei pirati  musulmani lungo le coste , la malaria e gli sconvolgimenti naturali, si può dire che essi svolsero  nei loro territori un ruolo  relativamente positivo; un ruolo che si fa più deciso  dopo il tragico evento tellurico  del 1638. Terremoti di minore entità si erano avuti già nel passato: uno nel 1606 che aveva provocato nell’abitato di Feroleto 9 vittime e l’altro evento tellurico nel 1626.

 

IL TERREMOTO DEL 1638 E LA NASCITA DI PIANOPOLI

Il 27 marzo del 1638, intorno alle ore 21,00 come riportarono le cronache del tempo, si abbattè sulla Calabria, in particolare nella zona del catanzarese, uno dei terremoti più distruttivi che l’uomo ricordi. Feroleto Antico fu quasi completamente distrutto: le vittime furono 161. Anche i paesi circostanti  persero numerose vite: Nicastro contò 1.200 morti, Sambiase 747, Sant’Eufemia 142.

Questo immane cataclisma non fiaccò però lo spirito della gente e dei feudatari, che ricostruirono il castello e l’abitato. Non solo, ma parte dei superstiti scese a costruire le case in piano, intorno alla chiesa di Santa croce, che era rimasta indenne dal sisma. Cosicché nel 1694 in quella zona denominata “cutura” era già presente un piccolo agglomerato urbano, al quale in un primo tempo venne dato il nome di Feroleto Piano e successivamente, nel 1872, per provvedimento governativo ebbe il nome che ancora oggi conserva e cioè Pianopoli.

Dopo il 1638, malgrado il rovinoso accaduto di quell’anno, il paese trova in se la forza di risorgere e rinnovarsi. Tant’è che molti suoi abitanti  costruirono nuove abitazioni  sulla parte pianeggiante posta a sud-est dell’antico colle urbano  ed ivi si stabilirono definitivamente. Il nuovo nucleo si giovava  certamente di spazi più comodi e continuava a godere  di una natura sana  e gradevole. Lo stesso Fiore non risparmia, in una sua descrizione idilliaca della zona, lodi ed apprezzamenti; tanta era stata la forma morale della popolazione di ristabilire e migliorare quella vita che il sisma aveva scosso e mortificato.

Sentiamo il Fiore: “…il terremoto del 1638, rovinò da fondamenti questa Terra; ma oggi stà quasi ristorata; oltre che buona parte  degli rimasti Abitatori, scesi al piano, edificarono un’altr’ Abitazione  in quanto molto deliziosa, con belli edifici, che li rende meravigliosa in vero e con vicini Paesi, per essersi edificata in tal modo, ed in si breve giro di tempo, d’anni cinquantasei, così numerosa di gente; fra i quali vi sono molte famiglie nobili, e ricchi, che compariscono con molto splendore, e fanno matrimoni cò Nobili delle città, di Catanzaro e Cosenza.”

Probabilmente all’occhio del visitatore, che ben poteva essere lo stesso del Fiore, il paesaggio si presentava così, ma accanto al “nuovo”, naturalmente si potevano  anche vedere i segni del lontano passato. In tutta la zona difatti avanzavano dei ruderi: mura, chiese, tessuto urbano, erano certamente muti testimoni di quanto remotamente accaduto; gravi danni erano stati subiti ad es. dal monastero dei Santi Filippo e Giacomo e dagli altri edifici religiosi esistenti; erano stati ridotti in rovina il vecchio castello (poi interamente riedificato dai D’Aquino), il castello di Pontico, ed il palazzo che secondo alcuni era stata fabbricato da Federino II ed altri fabbricati.

Alla fine del secolo XVII il nucleo abitato del paese era sempre compreso tra il fiume Badia ed il torrente Garella.

Nella parte più alta giaceva il castello, con a fianco il convento degli Agostiniani, mentre nella parte bassa si stendeva tutto il tessuto edilizio. Feroleto Piano era invece cresciuto fuori dalla cerchia feudale, formato dai citati fiumi e la sua conformazione urbana era decisamente regolare, con le due strade che l’attraversavano nel centro e che ne hanno regolato l’intera evoluzione. Pertanto i due abitati si andavano sviluppando in maniera diversa, data la diversità della configurazione topografica: più accidentata la prima, in pianura l’altra. In particolare la natura accidentata  di Feroleto Antico non ha permesso un regolare sviluppo edilizio urbano, mentre ha favorito il sorgere  spontaneo di altri centri, autentiche borgate rurali, che si sono sviluppate lungo le strade  che conducevano ai terreni da coltivare. Ciò vale per Vaiola, Polverini, Lucani ed altre borgate (es. Accaria), che tali sono rimaste, mentre Galli e Ievoli per la particolare loro posizione conseguirono una più razionale organizzazione urbanistica.

Nel corso del settecento Feroleto, e in genere gli antichi centri abitati dai D’Aquino, cominciarono a decadere. Fu soprattutto nella seconda metà del secolo che si acuì la crisi. La carestia del 1664, la peste che colpì gravemente la popolazione del catanzarese, la mancata coltivazione di alcuni terreni e le pressioni feudali, portarono allo sviluppo del brigantaggio. Nemmeno Feroleto ne restò immune.

Molte sono le notizie di bande che operarono sul suo territorio e lo colpirono segnatamente. A tal proposito vanno menzionati, tra i fin noto briganti, il Benincasa, lo Zungro soprannominato “Quadararu”, il Mazza ed altri più temibili come il Parafanti e Giuseppe Rotella soprannominato il Boia.

Lo stato feudale della famiglia D’Aquino  comprendeva al momento  della sua fine la già citata terra di Castiglione, la terra di Martorano, la terra di Motta Santa Lucia, la terra di Nicastro e la terra di Feroleto Antico.

Negli anni successivi con i provvedimenti francesi e borbonici si assistette a quelle suddivisioni  territoriali e amministrative che riguardava gran parte dei paesi della regione. Nel 1799, nell’ordinamento amministrativo disposto dal Chiampionnèt, durante l’effimera repubblica partenopea, Feroleto veniva incluso come comune nel cantone di Nicastro. Nel secondo periodo francese (1806-1814) con il provvedimento disposto dalla legge napoleonica del 19 gennaio 1807, lo si riconosceva luogo posto sotto il governo di Nicastro.

L’istituzione dei comuni e dei circondari, legge del 4 maggio 1811, lo rendeva comune autonomo e lo assegnava al Circondario di Serrastretta. Infine per decreto del 2 giugno 1833 veniva elevato a capoluogo di Circondario e comprese nella sua giurisdizione non solo i suoi villaggi, ma anche lo stesso Feroleto Piano mentre, i villaggi di quest’ultimo, Accaria, Palmatico, Maruchi, San Michele, Migliuso ed Angoli furono inglobati nel comune di Serrastretta.

La suddivisione del territorio così come fu fatta non dovette soddisfare gli abitanti, i quali richiesero nel 1890 (vale a dire dopo l’unificazione d’Italia) che al comune di Feroleto Antico venissero aggregati quelli di Amato, Miglierina, Serrastretta, villaggi di Angoli, San Michele e Migliuso  così come era stato nell’antico assetto di Feroleto.

La richiesta non ebbe seguito e i confini comunali rimasero quelli di oggi. Per quanto riguarda le attuali frazioni di Feroleto Antico, in particolar modo sulle frazioni di Ievoli, Polverini e Lucani, c’è da dire quanto segue.

Ievoli fu edificata, come riporta Filippo Bruni nel suo libro sulla storia di Serrastretta, tra la fine del XVII ed il principio del XVIII secolo, da alcuni profughi serrastrettesi i quali, avendo fissato stabile dimora nelle casette costruite in alcune loro proprietà, a poco a poco essi ed i loro discendenti, vi fecero sorgere un villaggio, l’attuale Ievoli, chiamata da “Ievulu”, nome di una specie di erba che fa gonfiare le mani se viene toccata e che il popolo usa nella cura dei dolori reumatici.

Le frazioni di Lucani e Polverini, sempre come riportato da Filippo Bruni nella citata opera, furono anch’esse formate da serrastrettesi. Due famiglie diedero nome alle località; esse furono la famiglia di Graziano, alias polverino, e quella di Lucia, le quali si stabilirono nelle casette di alcuni loro terreni, divisi l’un l’altro dal torrente Cundaro, da cui ha emissione il torrente Pigna, e qui vi dimorarono continuamente con i loro figli i quali in seguito aprirono separatamente famiglia, edificarono nuove case fino a formare due rioni, e di questi due rioni uno, quello della parte sinistra, si chiamò Polverini e l’altro, quello della parte destra del ruscello si chiamò Lucii e quindi Luciani.

L’origine di questi due rioni probabilmente avvenne al principio del secolo XVIII.

Altro particolare cenno merita la zona denominata “Monte Cugno”. Questa da diversi decenni è ritornata proprietà  del comune di Feroleto Antico ma un tempo fu venduta per necessità economica al principe  cesare D’Aquino. Infatti il Governo di Feroleto, trovandosi gravata da molti debiti e tasse, offrì al principe la montagna posta in vendita. Questi accettò l’offerta e, il 26 settembre del 1632, mediante un contratto stipulato col notaio Orazio Arietta di Amantea, passò in proprietà al principe Cesare, succeduto nel 1629 al conte Carlo D’Aquino. 

 

LA SOCIETA OPERAIA

 La società operaia a Feroleto Antico venne costituita nell’anno 1881 e fu denominata di “Mutuo Soccorso”.

Fu una delle prime che sorse in Calabria. Il ruolo che essa svolgeva era soprattutto un ruolo di assistenza e di aiuto. Era costituita da molti soci tra cui alcuni chiamati “soci visitatori”  che avevano il compito di visitare  e curare i malati per quanto era nelle loro possibilità e capacità. Facevano parte di questa società operaia soprattutto molti artigiani e da alcuni documenti risulta che tra il 1881 ed il 1890 essa comprendeva:

38 muratori, 26 sarti, 26 falegnami, 18 calzolai, 16 fabbri.

La società si sciolse una prima volta durante il periodo fascista. Subito dopo la caduta del fascismo si riaprì con un nuovo statuto e fu attiva fino a circa il1972, anno del suo definitivo scioglimento.

 

L’ARTIGIANATO

Feroleto Antico, come altri paesi del circondario, ha in parte perso la sua tradizione artigianale. Fino ad alcuni decenni fa le botteghe degli artigiani si contavano a decine. Ogni mastro aveva il suo piccolo buggigattolo dove trascorreva l’intera giornata lavorativa. Molti, non potendosi permettere un vero e proprio laboratorio, si arrangiavano in una stanzetta a piano terra della loro spesso malridotta abitazione, allestendola con pochi ma necessari attrezzi da lavoro.

L’artigianato tradizionale feroletano, soprattutto nel periodo antecedente e successivo alla seconda guerra mondiale, a differenza  di altri centri, era rivolto soprattutto ai consumi locali; tutto ciò dunque che da essi veniva prodotto, era  consumato ed utilizzato dagli stessi abitanti del paese.

Con il duro e faticoso lavoro di un artigiano campavano famiglie molto numerose, a volte con più di dieci figli a carico.  I vestiti venivano fatti a misura dal sarto, il quale spesse volte associava la sua arte del cucito a quella del barbiere.

Le scarpe venivano prodotte direttamente dal calzolaio; in paese se ne contavano molti. Questi, pur essendo in gran numero, avevano tutti una gran mole di lavoro in quanto  non essendoci ancora “la legge dell’usa e getta” , un paio di scarpe veniva riparato decine di volte prima di essere buttato.

I fabbri battevano il ferro fino a tarda ora creando delle magnifiche balconate che ancora oggi si possono ammirare in vecchi edifici in barba all’usura del tempo!

I mobili venivano fatti a misura e sul posto dai bravi falegnami. Essi riuscivano a creare – scolpendo il legno con tradizionali e rudimentali attrezzi, – degli stili molto raffinati a seconda delle necessità e possibilità del cliente.

Molte, inoltre, erano le maestranze dei lavori in muratura.

I nostri muratori non solo soddisfacevano le richieste locali, ma molto spesso eseguivano anche fuori paese lavori di precisione.

Esisteva inoltre numerosi laboratori dove instancabilmente lavoravano al telaio molte donne da mattina a sera e con grandi sacrifici.

Quello era il tempo dei garzoni: i ragazzi che abbandonavano la scuola sin dalle prime classi delle elementari ( spesso per  necessità di sopravvivenza) per recarsi in quelle botteghe dove apprendevano abilità, tecnica e sensibilità estetica.

Le ragazze invece stavano a casa a prepararsi il corredo. Era inconcepibile sino a poco tempo fa che una ragazza non sapesse ricamare.

Un tempo, non solo la vita dei paesi ma anche quella di mote città, era segnata dalla massiccia presenza delle botteghe artigiane.

Oggi invece, queste sono state sostituite dalla moderna tecnologia e al posto dei falegnami troviamo dei grandi mobilifici, al posto dei calzolai dei calzaturifici che producono e vendono merce fabbricata in serie.

 

L’EMIGRAZIONE  AI PRIMI DEL NOVECENTO

Il fenomeno dell’emigrazione, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, ha interessato vaste zone dell’Italia meridionale. Masse di uomini, per lo più appartenenti alla classe contadina, abbandonarono la Calabria per recarsi al di là dell’oceano in cerca di migliori condizioni di vita. I luoghi scelti da questi uomini, alcuni dei quali si trascinarono dietro l’intero nucleo familiare, erano le grandi metropoli dell’America settentrionale. Anche nel lametino il fenomeno – sia pure a carattere temporaneo – ha assunto vaste proporzioni privando i piccoli centri di braccia forti e giovani: l’emigrato solitamente ritornava nel paese d’origine dopo molti anni trascorsi fuori con un bel gruzzolo di danaro dove ad aspettarlo c’erano i suoi familiari. Le mogli durante l’assenza dei mariti- mediante l’ invio da parte di questi ultimi di modeste somme – provvedevano alle proprie esigenze economiche quotidiane. A Feroleto l’ emigrazione si è intensificata nel primo e secondo decennio del secolo scorso.

A darne testimonianza sono i registri di una compagnia di emigrazione che a Feroleto aveva il suo rappresentante legale nel signor Luigi Sando ( nato a Feroleto Antico il 30 settembre 1882) e che si chiamava “White Star Line”. Dal citato registro è possibile rilevare tutte quelle persone che sono emigrate da questo paese tra il 1908 ed il 1912 e che si sono servite di questa compagnia per il disbrigo delle pratiche; inoltre si possono ricavare molti altri elementi come gli anni di età al momento dell’imbarco, il giorno della partenza, la destinazione (solitamente New York nel porto di Ellis Island ma anche a Boston) e la tariffa pagata per il viaggio ( di solito dalle duecento alle duecentoquindici lire); i bambini pagavano mezza tariffa nolo. I vapori su cui venivano imbarcati erano solitamente il Cedric, il Celtic, l’Adriatic, il Canofric ed il Repubblic.